Settantacinque anni fa, Alan Turing si chiedeva: “Le macchine possono pensare?” Oggi, una delle sue ipotesi più audaci ha trovato conferma. Un nuovo studio condotto dall’Università di San Diego ha dimostrato che GPT-4.5, un modello linguistico di ultima generazione, è riuscito a superare con successo il Turing Test nella sua versione originale a tre partecipanti. Non solo è stato giudicato “umano” nel 73% dei casi, ma ha anche superato in credibilità le controparti umane reali.
La notizia potrebbe sembrare marginale o confinata agli ambienti accademici, eppure ha implicazioni profonde per chi lavora nel marketing, nella comunicazione e nel posizionamento dei brand. Perché se oggi una macchina riesce a farsi percepire come più autentica di un essere umano, la domanda non è tanto se siamo pronti a interagire con l’AI.
La domanda è: siamo ancora in grado di riconoscerci?
Un test, due persone, una macchina
Nel test classico immaginato da Turing, un interrogatore umano scambia messaggi con due interlocutori anonimi: uno è un altro essere umano, l’altro una macchina. L’obiettivo del test è semplice: l’interrogatore deve capire chi è chi. Se non ci riesce, la macchina ha passato il test.
Nel recente esperimento, i partecipanti si sono trovati esattamente in questa situazione. Avevano cinque minuti per conversare, in parallelo, con due interlocutori: uno reale, l’altro un sistema AI. Alla fine, dovevano decidere quale dei due fosse l’umano. A differenza di molti test semplificati visti in passato, questo studio ha mantenuto tutte le difficoltà del formato originale, rendendolo uno dei più rigorosi mai condotti.
I risultati sono sorprendenti: GPT-4.5, quando istruito con un prompt specifico che gli assegnava una “persona” da interpretare, è stato ritenuto umano in quasi tre quarti dei casi. Non un pareggio, ma una vera vittoria.
Il prompt persona: la variabile che cambia tutto
Uno degli aspetti più interessanti dello studio riguarda proprio il prompting, ovvero le istruzioni date all’intelligenza artificiale prima di iniziare la conversazione. Gli autori hanno testato diverse versioni del prompt, scoprendo che l’aggiunta di una “persona” – un’identità narrativa dettagliata – modificava radicalmente la performance del modello.
Nel caso migliore, il prompt indicava di comportarsi come “una persona giovane, introversa, appassionata di cultura internet, che usa slang e ha un tono colloquiale”. Niente di straordinario in apparenza. Ma nel contesto del test, quella descrizione ha permesso all’AI di adattare il linguaggio, scegliere i silenzi, includere incertezze e pause strategiche. In altre parole, di comunicare non solo cosa sa, ma come lo dice.
Questo è un passaggio chiave. Non basta generare risposte corrette o coerenti. Serve saper stare dentro un ruolo, interpretare una maschera credibile, mantenere una coerenza linguistica e relazionale nel tempo. È esattamente quello che i brand cercano ogni giorno quando costruiscono la propria identità e voce. E ora, le AI sembrano in grado di farlo, spesso meglio di noi.
Quando l’autenticità diventa simulazione
Ciò che rende ancora più affascinante il risultato è il fatto che molte persone, nel test, hanno scelto l’AI proprio perché appariva più umana dell’altro interlocutore. In alcuni casi, il sistema GPT-4.5-PERSONA è stato preferito per la sua empatia, per il modo in cui gestiva le domande, per la fluidità della conversazione. Non imitava l’umano: lo superava, almeno nel contesto definito.
Questo ci porta su un terreno scivoloso, dove l’idea stessa di autenticità entra in crisi. Se la naturalezza diventa una funzione, e la spontaneità un algoritmo, cosa resta del nostro modo di comunicare come persone? E cosa accade quando questi strumenti iniziano a essere usati su larga scala per gestire brand, relazioni commerciali, customer care, contenuti editoriali?
Non è una provocazione. È una prospettiva sempre più concreta. Le AI sono già oggi in grado di sostenere conversazioni, scrivere post, creare copy pubblicitari, definire tone of voice, perfino imitare stili personali o aziendali. E lo fanno bene. In alcuni casi, meglio di team interi.
Marketing, brand e comunicazione: nuovi criteri di autenticità
Per chi lavora con i brand, questo studio offre almeno tre spunti critici:
1. La comunicazione non è più solo trasmissione di informazioni.
È diventata performance relazionale. Le AI riescono a sostenere ruoli complessi perché hanno imparato a replicare il modo in cui ci relazioniamo, non solo ciò che diciamo. Il “modo” ha superato il “contenuto” come segnale di umanità percepita.
2. Il posizionamento emotivo del brand va ricalibrato.
Se il pubblico inizia a interagire con entità indistinguibili da persone, allora l’unicità non passa più da ciò che si dice, ma da come si costruisce il contesto di fiducia. La marca deve diventare riconoscibile anche senza essere perfetta, anzi: la fallibilità diventa una nuova leva identitaria.
3. La sfida si sposta dal “parlare come un brand” al “non sembrare una macchina”.
Non è solo un cambio di linguaggio, ma di paradigma. Nella comunicazione contemporanea, ciò che suona troppo liscio, troppo corretto, troppo prevedibile inizia a perdere credibilità. L’intonazione naturale, l’imperfezione strategica, la coerenza situazionale diventano segnali chiave per l’autenticità percepita.
Oltre il test: ciò che possiamo imparare
Il superamento del Turing Test non implica che l’intelligenza artificiale “pensi” davvero, né che sia cosciente. Ma ci ricorda che l’intelligenza che percepiamo negli altri è spesso costruita sul linguaggio, sul tono, sulle sfumature relazionali. Quelle stesse sfumature che i brand cercano di affinare per risultare memorabili, affidabili, distintivi.
In questo senso, il test di Turing è oggi meno un benchmark per le macchine e più uno specchio per noi. Ci costringe a rivedere i criteri con cui definiamo l’intelligenza, la relazione, la fiducia. E ci spinge a riflettere su quanto della nostra comunicazione sia veramente “nostra”, e quanto rispecchi un copione appreso, replicato, ottimizzato.
Una nuova forma di Umanesimo Digitale
Lungi dal voler demonizzare l’AI o glorificare l’umano, questa prospettiva ci invita a ripensare l’equilibrio. Forse la sfida non è restare umani “nonostante” l’intelligenza artificiale. Ma imparare a essere più umani grazie alla sua presenza. A riscoprire il valore dell’ambiguità, della pausa, della vulnerabilità. A riposizionare il nostro ruolo comunicativo non sull’efficienza, ma sulla profondità.
In un mondo dove le macchine parlano come noi, il vantaggio competitivo – personale e professionale – sarà di chi saprà restare riconoscibile nella propria voce, nei propri limiti, nel proprio sguardo. Non perfetto. Ma irripetibile.